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riassunto del libro "l'esame diagnostico con il DSM5" di Nussbaum. AA 2024-2025, professoressa Contardi
Tipologia: Dispense
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Il colloquio diagnostico rappresenta il primo momento di incontro tra il clinico e il paziente, ed è un processo cruciale, tanto sul piano diagnostico quanto su quello relazionale. Quando poniamo domande a una persona che manifesta sofferenza psichica, non stiamo semplicemente raccogliendo informazioni, ma stiamo già partecipando alla costruzione di un'esperienza condivisa. L’interazione clinica si modella infatti sulla narrazione dell’altro, influenzata dalle sue emozioni, vissuti e aspettative. In questo senso, il colloquio è un atto profondamente umano e non una semplice procedura tecnica.
Spesso, il solo accedere a un servizio psichiatrico implica per il paziente il superamento di numerose barriere, tra cui quelle logistiche (disponibilità dei servizi, costi), psicologiche (paura del giudizio, stigmatizzazione) e culturali (differenze linguistiche, appartenenza a minoranze). Questo rende evidente che chi riesce ad arrivare a un primo colloquio diagnostico ha già intrapreso un percorso faticoso e delicato. È quindi fondamentale che il primo contatto clinico sia improntato alla massima accoglienza, empatia e capacità di ascolto.
Le persone che si rivolgono ai servizi di salute mentale sono spesso portatrici di vulnerabilità multiple: possono appartenere a gruppi sociali marginalizzati, avere vissuti di esclusione o discontinuità in ambiti essenziali come l’istruzione, il lavoro, la casa, le relazioni affettive. Tali fattori non solo influenzano l’insorgenza o l’espressione della sofferenza psichica, ma anche la modalità con cui viene raccontata e percepita.
Nel colloquio psichiatrico, il clinico raccoglie due tipologie principali di dati: i sintomi , che sono le esperienze soggettive riferite dal paziente (es. tristezza, ansia, allucinazioni), e i segni , che sono osservazioni oggettive fatte dal medico durante la visita (es. eloquio disorganizzato, agitazione psicomotoria). Sebbene i segni vengano talvolta considerati più affidabili in quanto osservabili direttamente, entrambi sono soggetti a interpretazione clinica e non esistono in una realtà "pura" al di fuori del contesto in cui si manifestano.
Inoltre, molti sintomi psichiatrici non sono specifici e possono comparire in più condizioni cliniche, o anche in assenza di una vera e propria patologia mentale. Ad esempio, insonnia, irrequietezza, o calo del tono dell’umore possono essere reazioni normali a stress intensi. Ciò rende l’interpretazione clinica estremamente complessa e sottolinea l’importanza di una
valutazione attenta, prudente e contestualizzata, per evitare il rischio di diagnosi inappropriate o premature.
A differenza delle malattie organiche, che minacciano prevalentemente l’integrità del corpo, i disturbi mentali possono intaccare le fondamenta dell’identità: il modo in cui si pensa, si sente e si agisce. La portata dell’intervento diagnostico in psichiatria è quindi particolarmente profonda, con ripercussioni non solo cliniche, ma anche esistenziali.
Ascoltare con attenzione e rispetto il racconto di una persona, cercando di dare un nome al suo disagio, può rappresentare un momento di grande sollievo. La diagnosi in questo senso non è una semplice etichetta, ma un processo di significazione : aiuta il paziente a riconoscere e riorganizzare le proprie esperienze, inserendole in un quadro di comprensione condivisa. È un atto clinico, ma anche etico e relazionale.
La diagnosi è inoltre sempre provvisoria , nel senso che può (e deve) essere rivista alla luce di nuovi elementi, dell’evoluzione del quadro clinico o dell’intervento terapeutico. È costruita, perché è il risultato di un’interazione tra soggetti – il paziente e il clinico – e non un’entità oggettiva e immutabile. Ed è operativa, perché mira a facilitare un cambiamento: l’avvio di un trattamento, la ridefinizione di uno stile di vita, la costruzione di nuove risorse relazionali.
Fare una diagnosi significa assumere una posizione interpretativa, un giudizio prudenziale che va ben oltre l’osservazione di un elenco di sintomi. È una forma di comprensione profonda dell’altro, che integra elementi psicologici, relazionali e socio-culturali.
Il DSM-5-TR , nel suo aggiornamento, ha riconosciuto esplicitamente l’importanza dei fattori sociali e dimensionali nel processo diagnostico. A differenza del tradizionale modello categoriale – che classifica le malattie in categorie distinte a seconda della presenza o assenza di determinati sintomi – il modello dimensionale considera la gravità, la frequenza e la combinazione dei sintomi su un continuum. Questo approccio riduce il rischio di comorbilità artificiose e consente una maggiore flessibilità nel trattamento.
Ecco un approfondimento completo e strutturato del testo intitolato “Disturbi invece di malattie o patologie” , volto a chiarire e ampliare i concetti chiave in un linguaggio più articolato, coerente e critico, mantenendo uno stile adatto a un contesto accademico, clinico o formativo.
Disturbi invece di malattie o patologie
Il DSM-5-TR definisce un disturbo mentale come:
“Una sindrome caratterizzata da un’alterazione clinicamente significativa della sfera cognitiva, della regolazione delle emozioni o del comportamento, che riflette una disfunzione nei processi psicologici, biologici o evolutivi che sottendono il funzionamento mentale.”
Questa definizione ha alcuni punti fondamentali da evidenziare:
● Clinicamente significativa : il disagio deve avere un impatto concreto sulla vita del paziente.
● Multidimensionale : non è limitata a una sola area, ma può riguardare cognizione, emozione e comportamento.
● Processi sottostanti : si fa riferimento a disfunzioni nei meccanismi sottesi al funzionamento mentale (non solo sintomi osservabili).
● Non si applica a ogni comportamento anomalo : reazioni culturali prevedibili (come il lutto) o semplici conflitti con l’ambiente sociale non bastano per definire un disturbo.
Poiché il concetto di “compromissione significativa” non è definito con precisione operativa nel DSM-5-TR , è responsabilità del clinico valutare l’impatto della sofferenza sulla vita del paziente. Questo può avvenire attraverso:
● il confronto con il funzionamento premorboso , cioè lo stato di salute precedente;
● strumenti strutturati di valutazione , come il WHO-DAS 2.0 , sviluppato dall’OMS per valutare il grado di disabilità in sei aree del funzionamento (comprensione, mobilità, cura di sé, relazioni interpersonali, vita domestica e partecipazione sociale).
Tuttavia, nessuno strumento può sostituire una valutazione clinica individualizzata , che tenga conto del contesto biografico e sociale della persona.
Uno degli aspetti più delicati della diagnosi psichiatrica è il rischio di patologizzare comportamenti culturalmente divergenti. Il DSM stesso avverte che devianza e conflitto sociale non sono sufficienti per diagnosticare un disturbo mentale , se non accompagnati da disfunzioni individuali clinicamente rilevanti. Per questo motivo è essenziale:
● esplorare il significato soggettivo della sofferenza, ponendo domande esplicite al paziente su cosa significhi per lui ciò che sta vivendo;
● evitare supposizioni , soprattutto in contesti interculturali, dove il significato di sintomi e comportamenti può variare enormemente.
Il DSM-5-TR stabilisce che una diagnosi è valida solo se è clinicamente utile. Ciò significa che deve:
● guidare una decisione terapeutica concreta ;
● permettere una prognosi fondata ;
● aiutare il paziente a comprendere e affrontare la sua condizione.
Se una diagnosi, pur essendo tecnicamente corretta, non è di beneficio per il paziente , viene considerata inappropriata. Questo sottolinea come la diagnosi non debba mai essere fine a sé stessa, ma deve sempre essere uno strumento al servizio della cura.
Conclusione
La scelta del termine “disturbo” al posto di “malattia” o “patologia” riflette una trasformazione profonda del pensiero clinico in psichiatria , che non può più ignorare la complessità delle esperienze umane. La diagnosi psichiatrica è uno strumento potente, ma delicato: deve essere usato con consapevolezza, competenza e sensibilità , tenendo conto non solo dei sintomi, ma anche del senso che il paziente attribuisce alla propria sofferenza e del contesto in cui essa si sviluppa. Solo così potrà diventare veramente utile, e non una forma di esclusione o stigmatizzazione.
○ Cosa vogliamo ottenere insieme?
○ Recupero, sollievo dal sintomo, miglioramento funzionale, comprensione di sé…
○ Gli obiettivi devono essere concordati , non imposti, e devono avere significato personale per il paziente.
○ Cosa faremo per raggiungere questi obiettivi?
○ Può trattarsi di esercizi cognitivi , assunzione regolare di farmaci, diari emotivi, tecniche di rilassamento, esposizione graduale…
○ Il paziente deve comprendere e accettare le attività proposte.
○ Il “come” del trattamento: il tono relazionale, la qualità dell’ascolto, il rispetto, l’empatia.
○ È la fiducia reciproca che rende possibile affrontare anche contenuti dolorosi o minacciosi.
Questa struttura ha il vantaggio di essere applicabile a qualsiasi tipo di relazione terapeutica , inclusa quella basata sul solo supporto farmacologico. Anche in contesti psichiatrici più orientati al biologico, è essenziale creare una base relazionale che sostenga la compliance e favorisca il cambiamento.
4. Le forze di guarigione interne al paziente
Quando l’alleanza terapeutica è solida, attiva le risorse interne del paziente. Il paziente si sente visto, riconosciuto, coinvolto: ciò stimola speranza, motivazione, fiducia nel cambiamento. Questo effetto non è magico, ma psicologicamente coerente: la sofferenza mentale è spesso aggravata da sentimenti di isolamento, sfiducia e impotenza. L’alleanza è, di per sé, un atto riparativo.
5. Il ruolo degli assunti disadattivi secondo i Frank
Jerome e Julia Frank, con la loro teoria della psicoterapia come forma di “retorica emotiva trasformativa”, offrono un’interessante cornice epistemologica. Essi sostengono che le persone, anche quelle che apparentemente non possono cambiare, cercano aiuto perché i loro assunti fondamentali su sé e sul mondo non funzionano più.
● Questi assunti disfunzionali (es. "sono una persona fallita", "nessuno mi aiuterà mai") generano fallimenti ripetuti , che portano alla demoralizzazione.
● Il compito del terapeuta, anche nel colloquio diagnostico, è identificare questi assunti impliciti , ascoltare la demoralizzazione sottostante, e offrire una nuova cornice di significato.
Questa cornice interpretativa ha due effetti terapeutici:
Affinché l’intervento sia realmente efficace, il terapeuta deve riconoscersi in una teoria del cambiamento e avere fiducia nelle sue basi epistemologiche. Solo così potrà offrirla al paziente in modo credibile. I pazienti percepiscono la sicurezza e la coerenza del clinico: un approccio esitante, confuso o scollegato dai bisogni reali sarà percepito come inutile o addirittura dannoso.
7. Motivare al cambiamento attraverso la relazione
In definitiva, la funzione più profonda dell’alleanza costruita nel colloquio diagnostico è motivare al cambiamento. Molte persone che arrivano in consultazione sono in una posizione di ambivalenza: vogliono stare meglio, ma non sanno come o temono ciò che il cambiamento comporta.
L’alleanza terapeutica permette di creare uno spazio sicuro in cui il paziente possa:
● esplorare i propri vissuti senza giudizio,
✱ Esempio: un paziente con disturbo depressivo può iniziare dicendo "Voglio solo non sentirmi così male." Il clinico può aiutarlo a trasformare questo in obiettivi pratici, come "Tornare ad alzarmi la mattina alle 9", "Uscire almeno due volte alla settimana", o "Riprendere i contatti con un amico".
Un errore frequente nel lavoro diagnostico è sovrapporre gli obiettivi clinici a quelli del paziente , imponendo una direzione che non sempre corrisponde ai desideri o ai valori di chi abbiamo davanti.
🔹 Invece, l’invito è a mettere al centro gli obiettivi esistenziali del paziente :
● Che tipo di vita desidera?
● Cosa conta davvero per lui o lei, al di là del sintomo?
● Come definisce il proprio benessere?
Questa attenzione al significato soggettivo è fondamentale per costruire una relazione terapeutica autentica e rispettosa. Il paziente deve percepire che la cura non è solo su di lui, ma con lui.
Il testo ricorda che gli obiettivi non coincidono con “la salute” in senso assoluto, ma ne rappresentano le tappe parziali, i progressi concreti nel cammino verso la ripresa.
🧭 Gli obiettivi sono mappe dinamiche , non traguardi fissi. Possono cambiare, evolvere, adattarsi. Ma servono a:
● orientare il trattamento;
● misurare i piccoli successi;
● riconoscere i momenti in cui il paziente si allontana dal suo benessere;
● e, soprattutto, a mantenere viva l’alleanza terapeutica.
🔹 Il clinico ha il compito di rendere gli obiettivi “proprietà” del paziente : non devono essere percepiti come una lista di compiti imposti dall’alto, ma come strumenti co-costruiti , espressione dei desideri e delle risorse dell’individuo.
La formulazione conclusiva del testo – “Il vero perché del colloquio diagnostico è ricercare la prosperità del paziente” – introduce un concetto più ampio del semplice trattamento dei sintomi.
🧠 In psichiatria e psicologia moderna si parla sempre più spesso non solo di “guarigione” ma di prosperità (well-being, flourishing), che implica:
● una vita dotata di significato;
● relazioni soddisfacenti;
● senso di competenza;
● possibilità di contribuire alla propria comunità;
● speranza e progettualità.
📌 Questo orientamento si rifà alle prospettive umanistiche, esistenziali e alla psicologia positiva, e ridefinisce il colloquio diagnostico come primo atto di un’alleanza emancipativa , non solo clinica.
2. COMPITI: il “cosa” della costruzione dell’alleanza nel colloquio diagnostico
Dopo aver condiviso il “perché” del trattamento attraverso obiettivi comuni (la direzione), il passo successivo nella costruzione dell’alleanza terapeutica è definire il “cosa” : ovvero i compiti concreti , le azioni, le responsabilità che ciascun partecipante alla relazione terapeutica assume.
🔹 In questo senso, il colloquio diagnostico non è un semplice momento valutativo, ma il primo spazio di negoziazione e collaborazione , in cui il paziente è invitato a partecipare attivamente alla costruzione del significato e della direzione della cura.
👉 Risultato : Queste domande permettono di raccogliere in modo rapido ma significativo informazioni sul funzionamento psicosociale del paziente: rete di supporto, autonomia, routine, risorse.
Costruire l’alleanza sui compiti significa anche accettare che il sapere clinico non sia autosufficiente : è essenziale ascoltare, con umiltà, la narrazione del paziente.
📌 Quando il clinico mostra curiosità autentica per la storia, le aspettative e le credenze del paziente:
● rinforza la relazione di fiducia;
● promuove l’attivazione del paziente nel percorso;
● riduce l’asimmetria del potere nella relazione.
🔹 L’alleanza non si costruisce imponendo il proprio sapere, ma condividendo il processo di comprensione.
Il DSM-5-TR riconosce esplicitamente il ruolo della cultura nell’esperienza della sofferenza psichica e introduce strumenti come:
● Cultural Formulation Interview (CFI)
● Guida per l’inquadramento culturale
diagnosi e nella formulazione del caso.
👉 L’uso di questi strumenti mostra al paziente che la sua identità culturale è riconosciuta e non ridotta a una variabile secondaria o invisibile.
I compiti non sono solo quelli terapeutici in senso stretto (es. assumere farmaci, partecipare a una psicoterapia), ma possono includere una varietà di azioni:
● raccolta di documenti o anamnesi passata;
● coinvolgimento dei familiari;
● cambiamenti di abitudini quotidiane;
● pratiche spirituali o culturali rilevanti;
● impegni presi con se stessi nel quadro di un progetto di vita.
📌 Compito del clinico è:
● aiutare il paziente a nominare i compiti significativi per lui;
● negoziare insieme quali siano realistici e prioritari;
● essere trasparenti su cosa si può (o non si può) offrire.
Conclusione: il “cosa” dell’alleanza è co-costruzione, non
prescrizione
Costruire un’alleanza terapeutica efficace nel colloquio diagnostico significa:
● riconoscere che ogni persona porta con sé una teoria soggettiva della sofferenza ;
● far emergere tale teoria con ascolto attivo e domande esplorative ;
Prima ancora di parole, il contesto ambientale comunica qualcosa.
🔹 Un luogo scomodo, frettoloso o impersonale può attivare vissuti di sfiducia o inadeguatezza. 🔹 Al contrario, uno spazio che trasmette cura e attenzione promuove apertura e fiducia.
📌 Piccoli dettagli contano:
● Sedie comode e alla stessa altezza, che evitano asimmetrie di potere.
● Luce naturale, ordine, silenzio.
● Sedersi davanti al paziente, non dietro una scrivania, quando possibile.
● Posizione vicina alla porta (per sicurezza, ma anche per offrire simbolicamente libertà al paziente).
I segnali non verbali sono fondamentali, soprattutto nei primi minuti , quando le parole sono ancora poche e il paziente è in fase valutativa.
🔹 Questi segnali includono:
● postura aperta, accogliente;
● tono della voce calmo e modulato;
● sorriso lieve, ma non forzato;
● contatto visivo rispettoso;
● cenni del capo, microespressioni di ascolto;
● gesti di aiuto concreto (aprire una porta, offrire acqua, ecc.).
💡 Il non verbale può confermare o contraddire il verbale. Il paziente lo registra, anche inconsciamente.
L’avvio dell’incontro è determinante per stabilire un legame positivo. Un’apertura efficace prevede tre elementi chiave:
a. Definizione del tempo e degli obiettivi
Spiegare quanto durerà l’incontro e quale sarà il suo scopo è:
● un gesto di trasparenza e rispetto;
● una strategia per ridurre l’ansia;
● un invito a co-costruire l’esperienza.
b. Domanda iniziale significativa
Non basta chiedere “Come va?” o “Perché è qui oggi?”. Serve una domanda che attivi la narrazione personale , ad esempio:
“Cosa sperava di ottenere da questo incontro?” “Può raccontarmi cosa l’ha portata qui, a modo suo?”
c. Valutazione dell’uso del tempo
La risposta iniziale può rivelare come il paziente gestisce lo spazio relazionale e il tempo terapeutico : prolisso, reticente, focalizzato, ansioso. Questa osservazione è clinicamente utile.
L’ascolto non è passivo. È un atto intenzionale e strutturato.
🔹 Un buon ascolto si esprime con:
● attenzione flessibile (non interrompere, non anticipare);
● feedback verbali minimi ma autentici (“capisco”, “mh”, “mi dica di più”);
● evitare giudizi o interpretazioni premature;
● se il nostro ruolo evoca figure significative (genitori, autorità, ex terapeuti);
● se siamo oggetto di fiducia o diffidenza.
📌 Riconoscere queste dinamiche (anche controtransferali) aiuta a modulare la comunicazione , evitando impatti relazionali negativi.
L’alleanza non è una forma standard. È un abito su misura.
🔹 Alcuni pazienti hanno bisogno di distanza, altri di vicinanza; 🔹 alcuni vogliono sapere tutto, altri preferiscono gradualità.
💡 Il compito del clinico non è aderire a uno stile fisso, ma essere flessibile nel “come” si pone, senza rinunciare alla propria autenticità.
Non esistono formule magiche. L’alleanza è il risultato di:
● presenza autentica , non perfetta;
● ascolto profondo , non solo tecnico;
● attenzione costante , anche ai dettagli invisibili.
Le tecniche, le diagnosi, i protocolli funzionano meglio quando sono contenute in una relazione che cura.
Conclusione: il “come” dell’alleanza è presenza che accoglie
Costruire legami efficaci nel colloquio diagnostico significa:
● creare un contesto in cui il paziente si senta visto, ascoltato e rispettato ;
● comunicare con il corpo, la voce, l’ambiente oltre che con le parole;
● adattarsi con intelligenza relazionale ai bisogni specifici dell’altro;
● evitare di sostituire l’ascolto con la fretta di capire.
L’alleanza terapeutica non inizia quando si “cura”, ma quando si accoglie.
CAPITOLO 3- IL COLLOQUIO IN 30 MINUTI
1. Una struttura flessibile per una relazione autentica
Il colloquio diagnostico breve, della durata di circa 30 minuti, è una pratica clinica sempre più diffusa per motivi organizzativi e sistemici. Tuttavia, la sua efficacia non dipende solo dalla velocità o dalla completezza delle informazioni raccolte, bensì dalla capacità del clinico di coniugare efficienza e umanità.
🔹 In questi trenta minuti, il clinico ha il delicato compito di:
● instaurare un’alleanza di base;
● comprendere i sintomi attuali;
● valutare rischi, precedenti e funzionamento;
● raccogliere dati utili alla formulazione diagnostica e al piano di trattamento.
📌 Ma, come ricorda il testo, il modo in cui il colloquio è condotto può rinforzare o minare la fiducia del paziente.
2. Il rischio della frammentazione: troppe domande, poca
relazione
“Ha tendenze suicide? Sente le voci? Sa sottrarre 7 da 100?” In rapida successione, queste domande possono far sentire il paziente esaminato, non ascoltato.
🔹 Quando si procede per check-list, si rischia di: