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Mary Shelley - Frankenstein - letteratura inglese 5, Lecture notes of Literature

Mary Shelley - Frankenstein - letteratura inglese 5 - appunti in italiano

Typology: Lecture notes

2019/2020

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artemidadi27
artemidadi27 🇮🇹

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Mary Shelley - Frankenstein
Nell’ambito del romanzo gotico si è soliti classificare anche Frankenstein di Mary Shelley (1797-
1851), pubblicato nel 1818.
Mary Shelley Godwin, figlia di Mary Wollstonecraft e William Godwin, concepì il suo romanzo
durante le serate piovose dell’estate del 1816, un’estate trascorsa in montagna presso Ginevra,
assieme al marito, Percy Bysshe Shelley, a Byron e al medico Polidori.
Come spiega l’autrice stessa nell’introduzione all’edizione del 1831 (il libro, la prima volta, era
apparso con una Prefazione di P.B. Shelley che lasciava intendere che fosse stato scritto da lui), in
questo piccolo circolo letterario si parlava di filosofia e natura, dell’origine e del significato della
vita, del mito di Prometeo e delle imprese della scienza moderna.
La proposta per cui ogni componente del gruppo avrebbe dovuto scrivere una “storia di fantasmi”
costò una notte insonne a Mary Shelley, la quale sprofondò in uno stato di feconda
semincoscienza, nell’universo del “terrore”. Ma il tempo poi migliorò, gli uomini ripresero le loro
passeggiate ed escursioni e il racconto della Shelley fu, secondo quanto lei stessa dice nella
prefazione, «the only one which has been completed» (l'unico che fu completato).
Mary aveva ormai raggiunto un alto grado di coscienza di sé come scrittrice, tuttavia dalle pagine
di questa introduzione traspare quasi una sorta di meraviglia per l’audacia dell’opera: in
particolare, per la sua «ripugnante creatura», come la chiamava.
La domanda che poneva a se stessa «Come ho potuto, così giovane, arrivare a concepire, poi
ampliare, un’idea tanto ripugnante?» – era la medesima che in molti si erano fatti, e alla quale lei
ora voleva rispondere, fornendo un resoconto delle circostanze in cui Frankenstein era nato,
dando un nome ai luoghi, alle persone e ai libri che l’avevano ispirata. Un impegno che assolse con
estrema meticolosità.
Frankenstein, in effetti, è ben più del ricordo di una notte trascorsa «in preda alla paura»; il
romanzo analizza a fondo la tematica della responsabilità morale e indaga sull’apparato di
conoscenze a cui oggi diamo il nome di “scienza”.
La tendenza, propria di Byron e dei membri della sua cerchia, a sviluppare le idee fino alle loro
estreme conseguenze e a saggiare ogni sorta di sensazioni e di esperienze, si trasfigura qui in un
esame delle possibili ripercussioni della sperimentazione e dell'esplorazione dell'ignoto. Al tempo
stesso, Frankenstein è anche una fantasiosa dissertazione sui principi della libertà e dei diritti
umani tanto cari ai genitori della scrittrice.
Come Adamo, la creatura pone l’accento sulla propria solitudine e, più tardi, sulla propria miseria.
Riconosce inoltre di avere molto in comune con il Satana miltoniano («When I viewed the bliss of
my protectors, the bitter gall of envy rose within me» / Quando osservai la felicità dei miei
protettori, sentii crescere in me l’amaro fiele dell’invidia).
L’invidia, la sconfitta e l’infelicità esplodono in un parossismo di risentita distruttività che, per la
creatura, rappresenta il solo modo di vendicarsi della emarginazione cui si sente condannato. Il
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Mary Shelley - Frankenstein

Nell’ambito del romanzo gotico si è soliti classificare anche Frankenstein di Mary Shelley (1797- 1851), pubblicato nel 1818. Mary Shelley Godwin, figlia di Mary Wollstonecraft e William Godwin, concepì il suo romanzo durante le serate piovose dell’estate del 1816, un’estate trascorsa in montagna presso Ginevra, assieme al marito, Percy Bysshe Shelley, a Byron e al medico Polidori. Come spiega l’autrice stessa nell’introduzione all’edizione del 1831 (il libro, la prima volta, era apparso con una Prefazione di P.B. Shelley che lasciava intendere che fosse stato scritto da lui), in questo piccolo circolo letterario si parlava di filosofia e natura, dell’origine e del significato della vita, del mito di Prometeo e delle imprese della scienza moderna. La proposta per cui ogni componente del gruppo avrebbe dovuto scrivere una “storia di fantasmi” costò una notte insonne a Mary Shelley, la quale sprofondò in uno stato di feconda semincoscienza, nell’universo del “terrore”. Ma il tempo poi migliorò, gli uomini ripresero le loro passeggiate ed escursioni e il racconto della Shelley fu, secondo quanto lei stessa dice nella prefazione, «the only one which has been completed» (l'unico che fu completato). Mary aveva ormai raggiunto un alto grado di coscienza di sé come scrittrice, tuttavia dalle pagine di questa introduzione traspare quasi una sorta di meraviglia per l’audacia dell’opera: in particolare, per la sua «ripugnante creatura», come la chiamava. La domanda che poneva a se stessa – «Come ho potuto, così giovane, arrivare a concepire, poi ampliare, un’idea tanto ripugnante?» – era la medesima che in molti si erano fatti, e alla quale lei ora voleva rispondere, fornendo un resoconto delle circostanze in cui Frankenstein era nato, dando un nome ai luoghi, alle persone e ai libri che l’avevano ispirata. Un impegno che assolse con estrema meticolosità. Frankenstein, in effetti, è ben più del ricordo di una notte trascorsa «in preda alla paura»; il romanzo analizza a fondo la tematica della responsabilità morale e indaga sull’apparato di conoscenze a cui oggi diamo il nome di “scienza”. La tendenza, propria di Byron e dei membri della sua cerchia, a sviluppare le idee fino alle loro estreme conseguenze e a saggiare ogni sorta di sensazioni e di esperienze, si trasfigura qui in un esame delle possibili ripercussioni della sperimentazione e dell'esplorazione dell'ignoto. Al tempo stesso, Frankenstein è anche una fantasiosa dissertazione sui principi della libertà e dei diritti umani tanto cari ai genitori della scrittrice. Come Adamo, la creatura pone l’accento sulla propria solitudine e, più tardi, sulla propria miseria. Riconosce inoltre di avere molto in comune con il Satana miltoniano («When I viewed the bliss of my protectors, the bitter gall of envy rose within me» / Quando osservai la felicità dei miei protettori, sentii crescere in me l’amaro fiele dell’invidia). L’invidia, la sconfitta e l’infelicità esplodono in un parossismo di risentita distruttività che, per la creatura, rappresenta il solo modo di vendicarsi della emarginazione cui si sente condannato. Il

romanzo termina là dove era iniziato, in mezzo ai ghiacci artici, una distesa desolata dove le aberrazioni umane incarnate da Frankenstein e dal suo esperimento fallito conoscono una forma di espiazione e di purificazione. La mobile massa di ghiaccio galleggiante, oltre a essere in effetti un non-luogo, è anche un simbolo dell’aprirsi di nuove prospettive e nuove incertezze. Pur possedendo molti motivi e stilemi del gotico (l’orrore suscitato dalla creatura mostruosa, la natura sublime, la trama incentrata sull'inseguimento e la fuga, la struttura narrativa a “scatole cinesi”), Frankenstein è molto più di un romanzo gotico; e non solo perché, con la sua fusione di stile gotico e istanze giacobine, può a pieno titolo essere indicato come capostipite della narrativa fantascientifica. Frankenstein è innegabilmente una di quelle opere, come Dr. Jekyl and Mr Hyde o Nineteen Eighty-Four, che sono entrate nell'immaginario collettivo quali emblemi potenti di un incubo che perseguita la coscienza borghese dominata dal mito della conoscenza. Di Prometeo o di Satana, la scienza è un dono “terribile”, nel senso burkiano del termine: l’umanità vive nel terrore di essere «strangolata nei panni che essa stessa ha tessuto» (come dirà Forster nel suo racconto The Machine Stops, 1909). A ben guardare, Frankenstein anticipa i temi principali di quella scomoda letteratura anticanonica e subversive che è la distopia. Frankenstein, lo scienziato, usurpa insieme il ruolo del Creatore, Dio, e quello femminile della Natura (che per Ann Radcliffe erano un tutt'uno), senza la quale non può esserci amore e sympathy. Frankenstein dice di più: sconfessa il presupposto dell'individualismo borghese mostrando che la violenza e il sadismo sono conseguenza inevitabile, non dell'istinto inteso come egoistico will to live, volontà di vivere, spirito di conservazione, ma della negazione dell’istinto vero, quello dell'amore. Una delle note più ricorrenti evidenzia la solitudine e la mancanza di amicizia. Questo romanzo, come The Castle of Otranto di Walpole, è stato concepito in sogno, dove emergono «le cose come sono», e sarà avvertito dalle generazioni successive come un warning, un avvertimento e una minaccia nascosta, non semplicemente sui rischi della scienza, ma nei confronti del suo spirito “meccanico” che, come mostrerà Samuel Butler (1835-1902) in Erewhon (1872), pervade la società borghese. Al suo apparire, nell’anno 1818, l'opera provocò uno splendido, inatteso fremito di curiosità e timore. I limiti del romanzo dell’orrore erano ormai stati raggiunti e i vecchi scenari di castelli infestati di spettri, di immagini di bambini morti e putrefatti, di pugnali illuminati dalla luna cominciavano a suscitare un sorriso ironico, più che un brivido d'orrore. Molto prima, il giovane e percettivo Coleridge aveva previsto il crollo della letteratura gotica, scrivendo, nella recensione ai Misteri di Udolpho: «Nella ricerca di ciò che è nuovo, l’autore ha la tendenza a dimenticare ciò che è naturale e, rifiutando le conclusioni più ovvie, a giungere a quelle meno soddisfacenti». Frankenstein, allora, fu un bestseller; arrivò nel momento propizio in cui la narrativa aveva bisogno di produrre non solo ripugnanti e immaginari colpi alla bocca dello stomaco, ma riflessioni nella

Il materiale narrativo di Frankenstein è organizzato, nell’intreccio, in maniera alquanto complessa. La serie degli eventi si avvale di più narratori, i quali si alternano secondo una successione a incastro:

  1. lettere di Walton alla sorella, nelle quali si descrivono gli eventi connessi alle sequenze 1 e 2;
  2. narrazione di Frankenstein a Walton, il quale relaziona alla sorella (sequenze dalla 3 alla 6);
  3. narrazione del Mostro a Frankenstein, che narra a Walton, il quale a sua volta indirizza alla sorella i contenuti del racconto (sequenze dalla 7 alla 10);
  4. seconda narrazione di Frankenstein a Walton, il quale riporta alla sorella (sequenze dalla 11 alla 15);
  5. narrazione conclusiva di Walton alla sorella (sequenze dalla 16 alla 19). In sostanza l’intero racconto ha come destinataria costante la sorella di Walton, Miss Margaret Saville, a cui questi invia una serie di lettere (comprendente le sequenze 1, 2, 16, 17, 18, 19) e un manoscritto (in cui sono incluse le restanti sequenze centrali, dalla 3 alla 15). Le lettere fungono così da “cornice esterna” e ragguagliano eminentemente sulla vicenda concernente Walton, il primo narratore. Il manoscritto contiene il lungo racconto del secondo narratore, Frankenstein, a Walton e in questo è contenuto il resoconto del terzo narratore, il Mostro, a Frankenstein stesso. Si tratta quindi di un intreccio a “scatole cinesi”, in cui i vari frammenti della storia hanno volta a volta un narratore diverso e un diverso destinatario diretto (o in praesentia), oltre ad altri destinatari indiretti (o in absentia). In Frankenstein, dunque, non vi è traccia del cosiddetto “autore onnisciente”. La fabula, frammentata entro i segmenti narrativi che organizzano l'intreccio, si articola su un discorso condotto esclusivamente da narratori-personaggi, ai quali corrispondono altrettanti “punti di vista”. Nella complessa struttura a incastro di Frankenstein sono individuabili tre storie principali, ciascuna avente un suo narratore e, come si è detto, un destinatario (o narratario) diretto e uno o più narratari indiretti. Possiamo per comodità definire: “prima storia”, quella di Walton, afferente a vicende che lo riguardano specificatamente; “seconda storia”, o “storia centrale” (sia nel senso della sua collocazione spazio-temporale all'interno del testo, sia nel senso della sua preminenza), quella di Frankenstein; e “terza storia”, quella del Mostro. Le tre storie presentano una serie di interessanti parallelismi. Circa la prima storia c'è subito da rilevare che i contenuti simbolici delle sue sequenze sono omologhi a quelli della storia centrale. Esaminiamoli in dettaglio.

Nel personaggio di Walton delle lettere iniziali è individuabile il portavoce dello spirito romantico. In lui e nella sua “avventura” ritroviamo:

  1. la dimensione divina della natura, presentata come mistero da esplorare e come fonte inesauribile di rivelazione (si noti, in particolare, l'intero secondo paragrafo della prima lettera, pp. 269-70); l'esotismo, e in particolare il fascino esercitato dal Nord e dalle sue solitudini inesplorate; il viaggio verso l'ignoto inteso come avanzamento della conoscenza;
  2. la passione per le letture di tipo incantatorio, quali i resoconti di viaggi avventurosi e la poesia; la creazione poetica come momento di onnipotenza che assimila l'uomo a Dio (v. terzo e quarto paragrafo della prima lettera, pp. 70-1);
  3. la tendenza all'isolamento (rilevabile anche nella dichiarazione di essere un autodidatta); il compiacimento della propria “diversità”, nella affermazione di una maggiore ricchezza interiore, come conseguenza di una istruzione disordinata e dell'isolamento (dice infatti Walton: «I have thought more and [...] my daydreams are more extended and magnificent», p. 274). [Ho pensato più intensamente e... i miei sogni ad occhi aperti abbracciano campi più vasti e grandiosi]. Come abbiamo visto, nel personaggio di Walton delle lettere iniziali è riconoscibile il portavoce dello spirito romantico. Nello specifico, gli elementi che lo collocano in questo modo di sentire e di relazionarsi all’arte, alla natura, alla condizione individuale, sono: la dimensione divina della natura; la passione per le letture di tipo incantatorio; la tendenza all'isolamento. Simili elementi, al di là dei loro riferimenti specifici, riconducono al senso dell'indipendenza spirituale e dell’individualismo tipicamente romantici, ma anche al gusto per la trasgressione, rispetto a un ordine costituito e codificato, che da tale atteggiamento può scaturire. L’infrazione che Walton, assetato di conoscenza, sta per commettere è quella di un viaggio al di là delle barriere naturali entro cui è stanziata la comunità umana. Il suo è un peccato d’orgoglio cui è facile rapportare simbolicamente la hybris, la smania di potenza dei grandi personaggi del teatro classico ed elisabettiano: «[...] those shores which I so ardently desire to attain [...] Success shall crown my endeavours. Wherefore not? Thus far I have gone, tracing a secure way over the pathless seas, the very stars themselves being witnesses and testimonies of my triumph. Why not still proceed over the untamed yet obedient elements? What can stop the determined hearth and resolved will of man? (pp. 277-8). [... quei lidi che tanto ardentemente desidero raggiungere... I miei sforzi saranno coronati da successo. Perché no? Mi sono già spinto tanto lontano, tracciando un percorso sicuro su mari privi di rotte, con le stelle come sole testimoni del mio trionfo. Perché non proseguire attraverso gli elementi naturali, indomiti e tuttavia obbedienti? Cosa può fermare l'animo deciso e la volontà risoluta dell'uomo?]. Nella stessa terza lettera (sequenza 1) da cui sono tratte queste frasi, dense di determinazione e orgoglio di conquista, già si profila l'ombra della punizione, tanto più minacciosa e sicura nel rifiuto psicologico che Walton vi oppone:

l'impulso e l’esigenza di accrescere il proprio sapere; dall’altro, l’etica mitico-cristiana che lo vincola a rispettarne i limiti. HW: in che modo nel Frankenstein di Mary Shelley è organizzato il materiale narrativo.

Mary Shelley 2

Fra i due personaggi, Walton e Frankenstein, c’è un’ovvia affinità (ed essa sta alla base della loro reciproca attrazione). La prospettiva romantico-vittoriana che comprende entrambi, inoltre, aggiunge al polo della “smania di conoscenza” (alle loro inquietanti mete, al “diverso” che li contraddistingue e di cui si compiacciono) una suggestione vagamente demoniaca; e carica l’ “interdetto” millenario che vi si oppone di tutti i tabù di un'epoca, quella pre-vittoriana e poi vittoriana, fra le più repressive. Il parallelismo, a questo punto del romanzo, si stabilisce fra la situazione virtuale di Walton (volontà di conoscere al di là del consentito e vago presagio di una punizione) e l'esperienza in parte ormai conclusa di Frankenstein (implicitamente ma costantemente richiamata). La punizione che Frankenstein sta già subendo si pone, nella sua duplice qualità di premonizione e di monito, sullo stesso piano dei presagi di disgrazia cui Walton inizialmente allude e che fungono in lui da freno psicologico. Il progetto di INFRAZIONE di Walton trova la sua PUNIZIONE nell’ultima parte del libro (sequenza 16), quando l’infrazione di fatto si compie ma in modo quasi dissimulato. Walton infatti dichiara, all'inizio della sequenza 16, che durante la narrazione di Frankestein «a week passed away» (p.

  1. [passò una settimana]; in tale lasso di tempo la nave ha evidentemente proseguito la navigazione e oltrepassato i mitici confini dell’interdetto. La narrazione di Frankenstein costituisce, in rapporto all’intero romanzo, una “analessi completa”, in quanto è un lungo flash-back che arriva a ricongiungersi al racconto primo. Tale narrazione è condotta secondo la struttura del Bildungsroman, il romanzo di formazione. Relativamente alla sequenza 3, ciò che preme sottolineare è il resoconto degli studi di Frankenstein. Inizialmente autodidatta come Walton, e come lui attratto dai misteri della natura, egli concentra il suo interesse per il sapere, volutamente e significativamente, sulla scienza esoterica di antichi autori quali Cornelio Agrippa, Alberto Magno e Paracelso. Le loro wild fantasies lo affascinano e soddisfano assai più delle scoperte dei filosofi moderni: «The most learned philosopher [...] had partially unveiled the face of Nature, but her immortal lineaments were still a wonder and a mystery. He might dissect, anatomize, and give names; but, not to speak of a final cause, causes in their secondary and tertiary grades were utterly unknown to him. [...]. But here were books, here were men who had penetrated deeper and knew more. [...] I became their disciple. [...] I entered with the greatest diligence into the search of the philosopher's stone and the elixir of life [...].

Nor were these my only visions. The raising of ghosts or devils was a promise liberally accorded by my favourite authors.» (pp. 298-9). [I filosofi più eruditi avevano parzialmente svelato il volto della Natura, ma i suoi aspetti immortali costituivano ancora un'incognita e un mistero. Essi potevano dissezionare, anatomizzare e dare definizioni; ma, per non parlare delle cause ultime, anche le cause di grado secondo o terzo erano loro ancora completamente ignote... Ma ecco qui libri, e uomini, che erano penetrati più a fondo, che conoscevano di più... Io divenni loro discepolo... Mi addentrai con la più grande diligenza nella ricerca della pietra filosofale e dell'elisir di lunga vita... Né questi erano i miei unici obiettivi. I miei autori favoriti promettevano anche la possibilità di suscitare i fantasmi o i diavoli]. E più avanti: «I had a contempt for the uses of modem natural philosophy. It was very different when the masters of the science sought immortality and power. [...] I was required to exchange chimeras of boundless grandeur for realities of little worth.» (p. 306). [Nutrivo una certa sfiducia nelle applicazioni della moderna filosofia naturale. Era ben diverso quando i maestri della scienza ricercavano le fonti dell'immortalità e del potere... Qui mi si chiedeva di sostituire chimere di sconfinata grandezza con realtà di poco conto]. Il programma di Frankenstein è praticamente già tracciato in questo resoconto della sua smania di penetrare misteri preclusi all’uomo dalle leggi etico-religiose. Ben oltre le aspirazioni conoscitive di Walton, seppure a esse simbolicamente parallele, quelle di Frankenstein si spingono verso le insondabili origini della vita e oltre la soglia della morte, nel labirinto di oscure matrici generative che congiungono misteriosamente i due punti estremi dell'esistenza umana. E in tale chiave è spiegabile l’attrazione di Frankenstein per una pseudo-scienza utopistica di stampo medievale, avente per oggetto l’extrasensibile e il trascendente. Cupio sciendi. Frankenstein è dominato e divorato da un desiderio faustiano di conoscenza, dalla volontà di spingersi oltre il limite, fin nei domini dell’extrasensibile e del trascendente. Durante studi ulteriori, compiuti all’università, egli si accosta però alle moderne scienze naturali ripudiando l’alchimia e l'occultismo. Nella chimica e nella biologia egli individua gli strumenti per attuare un progetto i cui intendimenti rientrano proprio nella sfera di quel magico che ha costituito il suo primo grande interesse. Cioè a dire, nella opposizione fra la metafisica esoterica e l’empirismo, Frankenstein utilizza i mezzi del secondo per attuare gli scopi vagheggiati dalla prima. Combinando i macabri materiali raccolti in ossari e sepolcri, Frankenstein riesce a scoprire il principio della vita (e qui, al di là del topos cimiteriale gotico-romantico e della stessa ingenuità inventiva della Shelley, è individuabile la confluenza fra morte e vita che sta alla base del “doppio”). Sua finalità dichiarata − e sua giustificazione − è di riuscire, in seguito, a utilizzare tale scoperta per prolungare la vita dell’uomo (omologo della immortalità miticamente perseguita dai primitivi nella proiezione del sé nell’anima).

  1. la punizione (Walton imprigionato dai ghiacci, con il conseguente ammutinamento dell’equipaggio; per Frankenstein, che ha portato la sua “sfida” fino alle conseguenze estreme, la perdita delle persone a lui care e la morte). Un ulteriore parallelismo concerne la rinuncia all’infrazione che ambedue i personaggi a un certo punto pongono in atto (Walton, sequenza 17; Frankenstein, sequenza 13). Ma mentre Walton desiste dalla sua prima e unica trasgressione (il viaggio), Frankenstein evita solo, con la sua successiva rinuncia, la ripetizione (creazione di un secondo Mostro) di una colpa già commessa, irreparabile (il primo Mostro provocherà infatti altre morti di innocenti) e, per sua natura, duplice (infrazione dei vincoli conoscitivi e scatenamento del male). Le due storie si distinguono pertanto nella risoluzione finale, che vede Walton salvo e Frankenstein (emulo di Dio, artefice del “diverso” e come tale primo responsabile di un male dilagante e irreversibile) definitivamente perduto. HW: quali sono gli elementi, nel Frankenstein di Mary Shelley, che consentono di stabilire un parallelismo, e una differenziazione, fra i personaggi di Walton e di Frankenstein.

Mary Shelley 3

La terza storia (la narrazione del Mostro) presenta alcune analogie con le altre due, distinguendosene tuttavia sotto molti aspetti. La sequenza 7 tratta del processo di acculturazione del Mostro, in cui è rilevabile un anelito al sapere simile a quelli di Walton e Frankenstein riscontrati nelle sequenze 1 e 3. L’evoluzione del Mostro avviene per gradi. Dapprima egli apprende l’uso del fuoco come fonte di luce e calore e come mezzo per cucinare il cibo; quindi impara a conoscere l’uomo e via via, dalle nozioni atte a soddisfare le esigenze più elementari, procede nell'acquisizione di forme cognitive più evolute: dal linguaggio alla scrittura, alle nozioni sui rapporti parentali, sulle religioni, sulla storia, sulle differenze fra le classi sociali (cfr. capp. XI, XII, XIII). In tale processo di apprendimento (assimilabile a quello del bambino, o del selvaggio), l’intelligenza della Creatura si rivela superiore a quella di un comune mortale; egli impara più in fretta della fanciulla araba alla quale i suoi vicini di casa insegnano la lingua o leggono libri ad alta voce (insegnamenti di cui egli usufruisce origliando); e ancor prima di ciò, il Mostro ha dimostrato di possedere capacità di acquisizione fuori del comune nel decifrare i segni della comunicazione. Queste facoltà eccezionali se per un verso rafforzano la qualità di “diverso” propria del Mostro, per l’altro pongono la creatura su un piano di omologia con il creatore. Tuttavia il Mostro non farà un uso illecito dell’intelligenza e del sapere. Egli spinge la sua acculturazione fino a leggere direttamente alcuni libri, che lo illuminano su nuovi aspetti della storia dell’uomo e gli offrono spunti di riflessione sulla grandezza di certe imprese illustri e, al contempo, sulla iniquità di molti uomini: «I felt the greatest ardour for virtue rise within me, and abhorrence for vice.» (p. 396). [Sentivo sorgere in me un vivissimo anelito per la virtù e la più grande repulsione per il vizio].

Appare insomma evidente come il Mostro non solo utilizzi la conoscenza entro i limiti consentiti (in ciò distinguendosi sia da Frankenstein sia da Walton), ma ne faccia tesoro per una equilibrata formazione del giudizio. Durante le sue letture, la Creatura acquista anche una fondata coscienza della propria diversità, soprattutto in rapporto all'isolamento cui essa lo condanna. Egli ha già sperimentato la malevolenza e l’aggressività degli uomini nei suoi confronti, provocate dal disgusto che la sua immagine suscita. Lo stesso disgusto leggerà di lì a poco nelle annotazioni, rimastegli in tasca, di Frankenstein, il quale subito dopo averlo creato lo ha abbandonato inorridito. E − quel che farà colmare la misura − un uguale disprezzo gli dimostreranno i suoi amati vicini, sui quali egli aveva fondato tante speranze e che invece lo aggrediranno barbaramente nel momento in cui egli troverà il coraggio di rivelarsi. In seguito, ancora, la Creatura si troverà di fronte all'ostilità degli uomini che lo ripagheranno dei suoi impulsi generosi perseguitandolo; infine sperimenterà anche il rifiuto di un bambino (il fratellino di Frankenstein), che si ribellerà all’invito fattogli di accompagnarsi a lui. Il rifiuto degli uomini nei confronti del Mostro, e la persecuzione a cui essi lo sottopongono, sono assimilabili alla PUNIZIONE, funzione già individuata nella prima e nella seconda storia. Ciò che però distingue la punizione della terza storia è la diversa qualità della sua causa, in quanto, come detto, la colpa del Mostro non coincide con quelle di Walton e di Frankenstein. L'infrazione del Mostro consiste, infatti, solo nel suo essere diverso. Gli uomini ne hanno terrore perché non possono riconoscerlo come un loro simile, né classificarlo entro una qualsiasi altra specie animale conosciuta. La sua diversità non deriva tanto dal suo aspetto “brutto” o “terrificante”, quanto dal fatto che l’insieme delle sue fattezze non corrisponde alla norma, cioè a quanto gli uomini giudicano, per abitudine e convenzione che varia da cultura a cultura, una “fisionomia normale”, riconoscibile e dunque accettabile. Responsabile della irregolarità delle fattezze del Mostro è Frankenstein, suo maldestro artefice. La Creatura pertanto incarna l'infrazione alla norma senza esserne colpevole. La Creatura, il Mostro. Tipica rappresentazione del “buon selvaggio” rousseauiano, all’inizio la Creatura è fondamentalmente buona, lontanissima dall'idea del delitto («I looked upon crime as a distant evil; benevolence and generosity were ever present before me»; pag. 394). [Pensavo al crimine come a un male lontano; benevolenza e generosità erano sempre presenti in me]. Tutti i delitti di cui si macchia sono la conseguenza del rifiuto che gli uomini le oppongono, e cioè della punizione inflittale per la diversità di cui non è responsabile. Per giunta il Mostro, a differenza di Walton e di Frankenstein, della sua diversità (sinonimo di trasgressione al codificato) non si compiace affatto; al contrario, ne ha orrore. La fonte prima dello scatenamento di ogni male, va quindi ribadito, coincide con la violazione compiuta da Frankenstein e il vero primo diverso, quale sovvertitore della norma, è lui stesso. La

La riconoscenza che egli esibisce nei loro confronti, tuttavia, sembra avere un oggetto più plausibile, seppure non manifesto, nel Mostro stesso al quale egli attribuisce, come si è visto negli esempi citati, il deliberato proposito di indicargli e facilitargli il cammino. Lo “spirito guida” sembra cioè confondersi e identificarsi con il Mostro stesso, che in effetti guida Frankenstein, gli procaccia il cibo e appare legato a lui a filo doppio. In sostanza il Mostro manifesta, riguardo alla sopravvivenza di Frankenstein e all'inseguimento di cui è oggetto, un interesse almeno pari a quello espresso da Frankenstein. La sua vita, si direbbe, dipende da quella del suo inseguitore (scrive, nei messaggi lasciati lungo la via: «You have determined to live and I am satisfied» (p. 475). [Hai deciso di vivere e io sono soddisfatto]. «You live, and my power is complete. Follow me» (p. 477). [Se tu vivi, mi sento forte. Seguimi]). Parallelamente, Frankenstein dichiara di continuo di non avere altro scopo per cui vivere che il ritrovamento del Mostro («I dared not die and leave my adversary in being», p. 474 [Non osavo lasciarmi morire, mentre il mio avversario era ancora in vita]; «For this purpose I will preserve my life», p. 475 [A questo scopo mi preserverò vivo]; «[...] he himself, who feared that if I lost all trace of him I should despair and die [...]», p. 476 [Lui stesso, temendo che se avessi perso le sue tracce mi sarei disperato e sarei morto ...]). E tanto è intensa ed evidente la tensione reciproca che collega inseguitore e inseguito da far spesso apparire incongrue le rispettive professioni di odio. A dispetto di tali dichiarazioni, infatti, nella fuga del Mostro − attentissimo e quasi amorevole nel predisporre che il suo inseguitore non lo perda − e nel tenace inseguimento di Frankenstein − ben consapevole di costituire l'interesse principale del Mostro − si può individuare una sorta di quest convergente, nella quale entrambi i personaggi sono “oggetto del desiderio” l’uno dell'altro. HW: le fasi di acculturazione del Mostro, nel Frankenstein di Mary Shelley, anche in relazione alla formazione del giudizio.

Mary Shelley 4

Si potrebbe concludere che la persecuzione reciproca, attuata nel segno ambiguo della repulsione- attrazione, si rivela un perseguimento, cioè una ricerca, il tentativo di conseguire un risultato, di centrare un obiettivo. Resterebbe ora da individuare che cosa i due perseguano nell'altro. Su tale terreno le ipotesi non possono che essere caute e “aperte”. A livello di intreccio e di discorso di superficie, entrambi hanno come scopo dichiarato la vendetta. Tuttavia in un paio di situazioni la volontà di tale vendetta si vela di indeterminazione, o di ineluttabilità svincolata dalla volontà individuale. Dice Frankenstein: «At such moments vengeance, that burned within me, died in my heart, and I pursued my path towards the destruction of the daemon more as a task enjoyed by heaven, as the mechanical impulse of some power of which I was unconscious, than as the ardent desire of my soul.» (p. 477).

[In quei momenti la sete di vendetta che bruciava in me si estingueva e io seguitavo a rincorrere il Mostro per distruggerlo più come se fosse un dovere impostomi dal cielo, un impulso meccanico determinato da un potere di cui ero inconsapevole, che il desiderio autentico e ardente della mia anima]. E il Mostro racconta, riferendo a Walton dell’uccisione di Elizabeth: «I recollected my threat and resolved that it should be accomplished. I knew that I was preparing for myself a deadly torture, but I was the slave, not the master, of an impulse which I detested yet could not disobey.» (p. 493). [Ricordai la vendetta di cui lo avevo minacciato e risolsi che doveva essere compiuta. Sapevo che mi sarei sottoposto a un tormento terribile, ma io ero lo schiavo, e non il padrone, di un impulso che detestavo e a cui tuttavia non potevo disobbedire]. Entrambi cioè manifestano una esplicita riluttanza a compiere la vendetta, la quale viene ascritta a un impulso profondo, a oscuri disegni che stanno oltre la coscienza dell'uomo − in cielo o nei meandri insondabili della psiche. Attraverso questo gioco di rispecchiamenti e rimandi il testo, almeno a uno dei suoi possibili livelli di lettura, suggerisce una identificazione fra creatore e creatura, fra colpevole e colpa, tra orrore − codificato − della trasgressione e il diverso da essa determinato, fra soggetto e oggetto del desiderio. Con Frankenstein, Mary Shelley scrive un racconto dell’orrore, una storia che non soltanto attinge alla sfera dell’occulto e dell’inconoscibile, ma che ipotizza la creazione innaturale di un uomo da parte di un altro uomo. Il contenuto dell’opera costituisce di per sé una infrazione al codice etico epocale, in quanto indulge all’orrido e al diverso. Per compensare ciò la Shelley lascia che l’intreccio sia pervaso costantemente, potremmo dire “sorvegliato”, dal senso di una PUNIZIONE immanente e inevitabile, determinata dalla infrazione a una legge che non può essere infranta impunemente, vale a dire: «È proibito contravvenire alle leggi naturali e divine». I personaggi colpevoli di tale delitto (Walton parzialmente, Frankenstein come maggior responsabile e il Mostro in quanto incarnazione del diverso e poi assassino) subiscono quindi una serie di castighi. È sintomatico, però, che il Mostro, perseguitando Frankenstein, sopprime sistematicamente i suoi familiari e amici, ma evita (né mai progetta) di sopprimere lui. Quale relazione profonda tale comportamento nasconde? Possiamo dire che, in rapporto al suo artefice, il Mostro rappresenta l’omologo del figlio, al quale è fatto divieto morale di uccidere il padre. D’altro canto, il Mostro, proiezione ed emanazione degli istinti primordiali di Frankenstein, dipende da ‒ e si identifica con ‒ lui, quindi lo desidera vivo. Sopprimendolo, sopprimerebbe se stesso. Simmetricamente, Frankenstein inseguendo il Mostro manifesta il proposito di eliminarlo, ma non riesce ad attuare il suo progetto. E non vi riesce sia perché, nonostante le colpe del Mostro

Quanto al Mostro stesso, l'insistenza e il potere persuasivo con cui si discolpa e decanta la propria bontà d’animo appaiono discordanti sia nel contesto di un discorso riportato da chi lo aborrisce, sia nella coerenza “didascalica” di un racconto che lo vuole condannare. Un altro punto incongruo è quello relativo all’arringa con cui Frankenstein, quasi in fin di vita e dimentico delle ammonizioni propinate a Walton circa i pericoli insiti nella smania di conoscenza, incita l'equipaggio a non desistere dall’impresa che li ha condotti fino ai ghiacci polari (sequenza 16). Tali contraddizioni, appena percepibili, sembrano percorrere il testo come sottili discordanze rivelatrici di un discorso latente. Un discorso in cui il Mostro emerge quale oggetto privilegiato del narrare, rappresentazione di impulsi reconditi da giustificare e salvare, momento liberatorio del sé segreto di Frankenstein proiettato all'esterno. Frankenstein è in un certo senso il personaggio mediatore, cui è demandato di liberare l’istintualità primordiale ma anche di reprimerla. Parallelamente, Walton introduce il tema dell’anelito all'abbattimento delle barriere razionali, ma ne ribadisce la negazione ricostituendosi come rassicurante modello normativo. Quanto al Mostro, che incarna l’emersione del represso sotto la maschera rassicurante della malvagità, a lui tutto è attribuibile: anche la cancellazione, con lo strangolamento di Elizabeth, dell’innocenza e della virtù assolute proposte e codificate dal mistificante e fortemente repressivo modello femminile pre-vittoriano. HW: la natura della infrazione che il Mostro compie, nel Frankenstein di Mary Shelley, e la qualità della punizione che egli subisce. HW1: in che senso, nel Frankenstein di Mary Shelley, nella lunga caccia di Frankenstein al Mostro entrambi i personaggi sono “oggetto del desiderio” l’uno dell'altro.